Non serve ripercorrere molti anni e generazioni per ritrovare anche nel nostro Trentino un rapporto quotidiano e profondo con la natura, sia spontanea che coltivata. Una vera e proprio “cultura” dei cicli naturali, termine che condivide la propria radice etimologica con còlere, «coltivare». Un termine oggi trasformato in “coltura” per indicare le pratiche agricole, ma che rischia così di perdere il proprio significato simbolico più profondo. Proviamo allora a riportarlo in superficie raccontandovi la nostra visione di agri cultura attraverso questa storia.

Ci troviamo nell’estate di una sessantina di anni fa in località Celva, poco sotto il passo Cimirlo, negli anni  in cui anche in molte nostre valli si inizia a dismettere l’autoproduzione di sementi e piante da frutta per affidarsi ai tecnici delle ditte sementiere. Qui, da maggio ad ottobre, giocano insieme due cugini: Sandro e Francesca. Il nonno è un contadino e coinvolge tutta la famiglia nei lavori agricoli, trasmettendo loro il forte legame con la terra. Sandro è il nipote più grande e spesso spettano a lui le raccolte, soprattutto di un fagiolino molto particolare: il grisotto di Celva. Una varietà che il nonno, guardiaboschi della zona, coltivava in quella zona circa dagli anni 40. Per fortuna sia Sandro che Francesca sono alti di statura, perché questo fagiolo può arrampicarsi per oltre due metri, un po’ come il “fagiolo magico” dal racconto popolare inglese. Il nonno raccomanda sempre di raccogliere solo i fagioli grandi perché “deve far fazion”, parole che risuonano ancora nei ricordi di Sandro e indicano fare mucchio, quantità, creare volume. Perché l’importante non è tanto il sapore, che si è scoperto solo successivamente raccogliendolo nelle giuste dimensioni, ma mettere qualcosa sotto i denti. Come nella fiaba di Giacomino, infatti, in quegli anni la fame è un’esperienza diretta per moltissime persone e si punta a sostituire le varietà coltivate con nuove sementi più produttive offerte dal commercio.

Così, anche il Grisotto di Celva viene abbandonato, almeno apparentemente. Si tratta infatti di un fagiolo non particolarmente produttivo, coltivato per il suo gusto, l’assenza del “filo” e le ottime caratteristiche organolettiche, oltre alla bellezza del suo seme che ricorda una perla viola.
Sostituito in gran parte dal più noto Grisotto di Trento, conosciuto anche come “stortino”, che è una varietà totalmente diversa: molto produttivo ma meno saporito, con un seme colore marroncino e con una maggiore tendenza a “fare il filo”.

Un altro fenomeno di quegli anni sembra però aver salvato le sorti del Grisotto di Celva. Chi partiva in quel periodo era solito portare con sé un legame con la propria terra: tralci di vite o sementi. Ed è proprio grazie al fenomeno migratorio che Sandro, durante una visita ad amici del nonno, ha potuto ritrovare in Francia quelle perle viola che pensava di aver perduto e rientrare a Trento con una scatolina di latta contenente circa 100 semi: un dono che il nonno aveva fatto agli amici nei primi anni 40.

Per 3 anni di fila Sandro ha provato a piantare i fagioli, 5 semi per volta per evitare sprechi, ma senza nessuna resa. Questo ritrovamento sarebbe stato infatti vano senza il supporto dell’Associazione Pimpinella che nella sua attività di tutela della biodiversità agricola, oltre a favorire la diffusione delle varietà locali, si sforza di trasmettere anche le competenze per coltivarle. Sono nate dunque, con grande soddisfazione, le prime 5 piantine: 3 delle quali affidate ai custodi della Pimpinella, tra cui corsisti e operatori del laboratorio agricolo della Cooperativa Samuele che si stanno impegnando per garantire un futuro a questa varietà.

Ora vorremmo valorizzare ulteriormente questa eredità e portare le perle viola anche nel nostro Artelier in via S. Marco, collegato a tutto questo tramite Francesca, cugina di Sandro, che è stata corsista del negozio per molti anni. Dalle sue mani sono nati stupendi manufatti artigianali e il nostro obiettivo ora è utilizzare il Grisotto di Celva, oltre che nel laboratorio agricolo, anche come bomboniera solidale per diffondere questa storia insieme alla visione di futuro che porta con sé. Per raccontare, dunque, il valore che può celarsi in ciò che è “poco performante” per il modello di sviluppo in cui siamo immersi, e che invece è un seme di speranza da custodire con cura.