Quando ci hanno chiesto di raccontare una storia di accoglienza, la prima cosa che abbiamo pensato – ripercorrendo i percorsi delle persone che incontriamo nel nostro lavoro – è stata la necessità di provare ad allargare la visione dell’accoglienza, troppo spesso imbrigliata in un’idea unidirezionale di relazione. Crediamo sia fondamentale provare a riflettere su come passare da un’idea dei “bravi” che accolgono ad un’idea di accoglienza più ampia: vera relazione di scambio che parte prima di tutto dal riconoscimento della persona. Uno spazio dove ognuno porta sé stesso, con le proprie risorse e i propri limiti.

Questo è quello che noi sperimentiamo quotidianamente nei nostri laboratori di formazione. Qui l’accoglienza è qualcosa che riguarda ognuno di noi. Non una relazione verticale verso chi è in una situazione di fragilità, ma uno scambio bidirezionale da cui tutti coloro che si pongono in un atteggiamento aperto e di ascolto possono imparare. Qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno.

Lo abbiamo sperimentato negli anni, confrontandoci con le persone che seguiamo e dove spesso vediamo riflesse le nostre stesse fragilità, rendendoci nel tempo sempre più conto di quanto sia una condizione di fortuna e non di merito la distanza tra chi è “integrato” nella società e chi invece vive ai suoi margini. Il nostro lavoro ci consente di comprendere ogni giorno come le situazioni di emarginazione siano parte della condizione di vita di ciascuno, di capire quanto tutti abbiano bisogno di sentirsi accolti e come spesso quest’accoglienza arrivi proprio da dove meno ci si aspetta.

Proviamo allora a raccontarlo anche a voi attraverso una storia.

B. è un corsista del nostro laboratorio del cuoio e il suo percorso – durato 20 anni – ha segnato profondamente la visione dell’accoglienza nella Cooperativa Samuele. B. soffre di schizofrenia e arriva a Samuele da Villa S. Ignazio dove è già conosciuto e rispettato per la sua storia: dotato di manualità fine e creatività, è un gran cantastorie, in grado di incantarti con i suoi discorsi filosofici e le sue visioni new age fino a farti dimenticare da dov’è partito. Una persona che mette allegria e crea comunità, onnipresente in tutte le gite e gli eventi della cooperativa.

Poche volte si spinge a chiederti “come va?” Ma, quando lo fa, ti lascia senza parole, perché quel giorno è l’unico a rendersi conto che qualcosa non quadra. B. ha infatti un’attenzione speciale nei confronti delle persone e una grandissima capacità di cogliere il non detto.

È un mediatore nato, di fronte a uno sfogo su qualche operatore o corsista della cooperativa, B. è capace di inserire l’evento in una visione più ampia, nella giusta prospettiva che parte dal riconoscimento della storia di quella persona. Non si impone, non pretende di cambiare nessuno, sembra quasi che il percorso di accettazione di sé e della sua malattia lo abbia reso particolarmente forte in questo.

A un certo punto della sua storia, alla malattia psichica si aggiunge un brutto male fisico, incurabile secondo i medici. Ed è allora che tra gli operatori nasce la domanda che li accompagna ancora oggi: “chi è dipendente da chi?” Quando viene comunicato che lo stadio della malattia è terminale, tutti gli educatori scelgono di fare un percorso di accompagnamento al lutto, perché sembra semplicemente troppo difficile e troppo presto per salutarlo: nessuno è pronto a distaccarsi da lui.

La stessa dinamica si ripete – a distanza di anni – durante l’emergenza Covid, quando è tanta l’apprensione nel saperlo isolato. Diverse chiamate si susseguono per capire come stia, per poi rendersi conto – non con poco disorientamento – che il bisogno sembra essere più il nostro che il suo in quella situazione. Anche qui B. ci stupisce, per la sua grande capacità di reazione: ci rende chiaro quanto per lui quella situazione di potenziale emarginazione sociale sia una costante, come per lui ogni giorno sia guadagnato. Siamo noi ad essere in crisi nel gestire quel momento di isolamento, per noi eccezionale.

Un’ulteriore conferma arriva poi con la fine del suo percorso, un “pensionamento” forzato. Ci prepariamo a riferire a B. la notizia avuta dal servizio sociale con grande delicatezza, dandogli la nostra totale

disponibilità in termini di accoglienza e volontariato. E ancora una volta ci lascia senza parole, con un chiaro e semplice: “ma sì dai, l’era ben ora”, che non lascia spazio a interpretazioni.

Di fronte alla sua reazione a questo e ad altri cambiamenti della sua vita, ci rendiamo conto allora di quanto questo percorso si sia sviluppato negli anni in modo inaspettato: siamo più noi ad avere più bisogno di lui, che viceversa. E, nonostante lo smarrimento iniziale, questo diventa per noi il risultato più bello: la conferma di aver creato una relazione vera, uno spazio sincero e libero di espressione, dove ognuno ha messo la sua parte. Ciò che ha permesso a B. di raggiungere la sua autonomia.

L’esempio di B. è per noi particolarmente significativo perché è quello di una persona potenzialmente emarginata che diventa nel tempo una figura di riferimento, per i corsisti, per gli operatori e per i ragazzi più vulnerabili, che da lui ascoltano anche i consigli che dagli educatori non accettano. Negli anni, i tratti patologici si trasformano così in saggezza, in una sorta di auto-equilibrio tra il disagio psichico e il male fisico che lo affligge.

Un percorso unico. Un’unicità che ha scombinato i piani e insieme ci ha fatti crescere come cooperativa, che ha potuto esprimersi perché ha trovato un luogo dove farlo, che ha concesso a B. e a tutti noi di far emergere il meglio. “Voi vedete la parte migliore” ci dicevano i familiari, “è come se avesse scelto voi come famiglia. Vi fa accedere a una parte che noi non conosciamo.”

B. non è mai arrivato all’inserimento lavorativo, quindi effettivamente non ha mai raggiunto formalmente l’obiettivo formativo del suo percorso. Ha trovato però il suo equilibrio, la sua casa, la sua vita. Ed è riuscito a diventare un modello diretto anche per gli altri, senza necessità di essere raccontato.

Un caso che ci ha mostrato come dobbiamo e vogliamo essere un luogo di comunità, prima ancora che di formazione al lavoro. Una storia di accoglienza che rimane non per le difficoltà, ma per la ricchezza della relazione instaurata che continua ancora oggi.

In questo senso vogliamo allora continuare a lavorare a Samuele per creare una comunità accogliente, partendo proprio da quel piccolo mondo che è la nostra cooperativa. Un posto che vuole accogliere le fragilità di ciascuno: dal volontario che cerca un proprio posto dopo la pensione, all’operatore che vive un momento di difficoltà personale, al giovane in servizio civile che cerca un orientamento e una valorizzazione di sé, a tutti i corsisti e le loro storie.

L’obiettivo è che tutti trovino qui un luogo di accoglienza. Nella convinzione che la vera inclusione possa esserci solo quando alla persona viene lasciato lo spazio di emergere nelle sue potenzialità.